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Si possono definire puro nazismo e follia xenofoba, i delitti commessi da Wolfgang Abel e Marco Furlan. Uno Tedesco, l’altro Italiano, nell’arco degli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985 uccisero, in nome della razza e in principio all’ideologia nazista, quindici persone, tutti rivendicati da quella che, a lungo, fu ritenuta una strana ed oscura organizzazione di ispirazione neonazista: “Ludwig” per l’appunto. Le vittime accertate (molti ritengono che siano addirittura ventisette) furono per lo più emarginati come omosessuali, tossicodipendenti e prostitute ma, non scamparono alla mattanza, anche normali cittadini che frequentavano cinema a luci rosse oppure ragazzi amanti dei sabato in discoteca. La mano omicida operò soprattutto nella zona del Veneto, poi si spostò nelle zone limitrofe, in Lombardia, ma aveva già colpito anche all’estero, soprattutto in Germania. La matrice che accomunava i delitti di “Ludwig” era una devastante furia moralizzatrice. L’odio per i diversi, per chi, in una tristissima visione del mondo, non obbedisce alle regole del perbenismo più idiota. Un odio che spinge “Ludwig” a colpire anche dei frati, rei di aver divulgato una fede distorta e ingannevole. Anche le modalità degli omicidi sono brutali: le aggressioni venivano effettuate con coltelli, martelli, scuri, punte di scalpello oppure utilizzando il fuoco. “Ludwig” aveva una caratteristica diabolica: non solo rivendicava puntualmente i suoi orrendi delitti, ma, ogni volta, forniva agli inquirenti anche gli elementi, le circostanze, le prove, che solo chi aveva ucciso poteva conoscere. Chi era “Ludwig”? Davvero questa sigla nascondeva un’organizzazione di esaltati neo-nazisti? Il tre Marzo 1984, due giovani che stanno cercando di incendiare una discoteca nel mantovano, vengono arrestati. Da quel momento “Ludwig” esce di scena. I protagonisti non sono però ragazzi qualunque, appartengono all'alta borghesia veneta. Wolfgang Abel nasce nel 1959 a Monaco. E' figlio di un ricchissimo avvocato tedesco di nome Gerhard residente dal 1964 nella provincia di Verona a Negrar. Abel, però, visse per qualche tempo anche nella città bavarese. Si laurea in matematica con il massimo dei voti presso l'Università di Padova nel 1984 ed è giudicato un attento conoscitore della cultura filosofica. Ma, terminati gli studi, cambia completamente campo d'interesse e comincia a lavorare a Monaco nella compagnia di assicurazioni “Arag Italia” di cui il padre era consigliere delegato. E' per questo che Abel si divide tra Monaco e la lussuosa villa dei genitori a Negrar. Quando il quattro Marzo 1984 viene arrestato perché colto in fragranza di reato mentre insieme all'amico Marco Furlan tenta di appiccare il fuoco alla discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, il padre decide di anticipare il suo pensionamento. Abel è accusato di essere insieme a Furlan l'autore dei crimini costati la vita a quindici persone nel Veneto e rivendicati dal gruppo neonazista “Ludwig”. Durante il lungo e complesso procedimento giudiziario che termina con una condanna in terzo grado a ventisette anni di carcere, Abel viene sottoposto a continue perizie psichiatriche da cui si desume una sua parziale incapacità di intendere e volere. La motivazione, stando ai periti, risiederebbe "nelle cure materiali prive del vero calore" da parte dei genitori. "Non sono state soddisfatte le sue aspettative emozionali ed egli ha la personalità in quella che gli psichiatri infantili definiscono situazione abbandonica". Già nel settembre del 1978 Abel dà segni di squilibrio, come testimoniano poche righe mischiate a una lucida sequenza di osservazioni di carattere filosofico annotate su un taccuino: "ricovero o suicidio". Dopo la sentenza definitiva dell'undici Febbraio 1991 Abel protesta con lo sciopero della fame e tenta più volte il suicidio tanto da essere obbligato a un lungo ricovero nell'ospedale giudiziario di Reggio Emilia dove viene sottoposto a terapie psichiatriche. Marco Furlan, studente di fisica, fu invece arrestato prima di riuscire a prendere la laurea. La Corte di Cassazione, sempre l'undici Febbraio 1991, lo condannò a ventisette anni di prigione dopo che in primo grado la sentenza era stata di trent'anni. L'iter giudiziario fu lunghissimo perché interrotto da continui colpi di scena. Il quindici Marzo 1984, subito dopo l'arresto, Furlan tenta il suicidio in carcere cercando di impiccarsi alle inferriate della cella con il lenzuolo. Le perizie psichiatriche si susseguono. A Furlan, dicono gli psicologi, sono mancati da parte della famiglia gli affetti, la tenerezza, il calore umano e l'appoggio come elementi antropologici per strutturare la personalità. Con il risultato che, nelle varie tappe della sua evoluzione infantile, si sono fissate insicurezze, conflitti, comportamenti reattivi. Il quindici Giugno 1988 la Corte d'Assise d'appello di Venezia ordina la scarcerazione dei due complici per decorrenza dei tempi di carcerazione preventiva e ordina a Furlan il soggiorno obbligato a Casale di Scodosia, in provincia di Padova. Ma da lì l’uomo fugge proprio a ridosso della sentenza di terzo grado e si rende latitante per quattro anni. Nel Maggio 1996, però, la polizia lo rintraccia e lo arresta a Creta. Furlan è ancora detenuto. Di lui gli psichiatri dissero: "è caratterizzato da una situazione di generica inferiorità intellettuale data da conflitti psichici non risolti e anche da una dipendenza legata a simpatia, amore o stima rispetto al complice Abel".
Cronologia dei fatti: la sera del ventisei febbraio 1983 un anziano sacerdote stava risalendo la ripida via dei Giardini a Trento. Padre Armando Bison, 71 anni, padovano di origine, della Congregazione dei Figli del Sacro Cuore, detti Venturini, aveva appena celebrato la Messa nella chiesa del Suffragio e stava tornando al convento. Piovigginava ed era ormai buio. A un tratto, arrivato a pochi passi dal cancello, qualcuno lo aggredì alle spalle fracassandogli la testa a martellate. Poco dopo un confratello che stava uscendo dal cancello vide Padre Bison a terra in un lago di sangue. Particolare agghiacciante: gli aggressori gli avevano conficcato nel cranio un punteruolo da scalpellino, sul quale avevano saldato un crocifisso di legno. All’arrivo della polizia, una donna racconta di aver visto poco prima due giovani sui vent’anni, seminascosti nel buio. Padre Bison venne portato all’ospedale di Verona. Morirà dopo dieci giorni di agonia. Il fatto suscitò un’enorme emozione a Trento. Si collega subito questa folle aggressione a una analoga avvenuta l’estate precedente a Vicenza: due monaci del Santuario di Monte Berico erano stati uccisi allo stesso modo. In quel caso a rivendicare il duplice omicidio era stata una strana sigla, “Ludwig”, con una lettera inviata all’Ansa: sul foglio un’aquila stilizzata sormontata dalla scritta «Gott mit uns’» (Dio con noi), il motto dei nazisti. Nella lettera era scritto: «Il fine della nostra vita è la morte di chi tradisce il vero Dio». E ben presto anche l’omicidio di Trento venne rivendicato dal fantomatico “Ludwig”. Ma chi si nascondeva dietro questa sigla? Un mitomane, un pazzo, un serial killer, un fanatico? Gli inquirenti brancolavano nel buio. Non era la prima volta, del resto, che la parola rivendicava fatti di sangue: già nel 1980, con una lettera inviata al Gazzettino di Venezia, “Ludwig” si attribuiva la paternità di una catena di omicidi cominciata nel 1977 e proseguita al ritmo di uno all’anno. Le vittime sono nomadi, omosessuali, prostitute, tossicodipendenti. Nel 1982 è la volta dei due religiosi di Vicenza. L’aggressione a Trento fu la prima fuori del Veneto. Poi, il quattro Marzo 1984, la svolta. Quel giorno alla discoteca «Melamara» di Castiglione delle Stiviere (Mantova) ci sono circa trecento persone che ballano quando qualcuno avverte odore di benzina e vede un giovane che svuota una tanica sulla moquette. Questi viene bloccato e insieme a lui un altro giovane che cerca di fuggire. Sono Marco Furlan, veronese di 20 anni, figlio del primario del reparto ustionati dell’ospedale di Verona, e Wolfgang Abel, 25 anni, figlio di un ricco assicuratore tedesco che da anni risiede a Negrar di Verona. Determinante sarà la scoperta, nelle abitazioni dei due, di block notes con fogli uguali a quelli usati per le rivendicazioni, sui quali erano visibili i solchi lasciati sul foglio sottostante dalla penna che aveva tracciato i loro messaggi. Il processo di primo grado, svoltosi a Verona, condanna i due a trent’anni: il Pm (che era Francesco Pavone, poi diventato procuratore a Rovereto) aveva chiesto l’ergastolo, ma i giudici avevano riconosciuto la semi infermità mentale. Il processo d’appello, tenutosi a Venezia (e in questo caso il Pm era Stefano Dragone, oggi procuratore capo a Trento) aveva ridotto la pena a 27. Ma perchè uccidevano? I due giovani dell’alta borghesia, uno laureato in matematica, l’altro in fisica, si erano auto attribuiti una sorta di missione moralizzatrice, forse richiamandosi a una tragedia ottocentesca del drammaturgo tedesco Otto Ludwig, il cui protagonista teorizzava la figura del sacerdote perfetto e puniva con la morte «i servi dei falsi dei». Secondo il Pm Pavone però i crimini commessi erano semplicemente: «delitti di riempimento alla noia dei fine settimana».

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